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BALLATA DELLA GRANDE GUERRA di Roberto Piumini classi prima A B C

Dopo quasi cent’anni senza guerra,
si arma, nell’Europa, ogni potenza:
Quelle centrali vogliono più terra,
le altre potenze fanno resistenza.
Si sono già spartite i continenti,
l’Africa e l’Asia, imperi coloniali:
ma i potenti non son mai contenti:
l’Europa si prepara ad altri mali.
Si armano gli Stati, bellicosi,
navi da guerra e grossi cannoni,
si scambiano messaggi minacciosi,
si stringono alleanze, alzano toni.
In Serbia è ucciso un Duca: una scusa
ha l’Austria, per invadere il paese.
“E’ un’aggressione!” l’Inghilterra accusa,
lo stesso strilla il Governo francese.
Così scoppia la guerra, la maggiore
che, fino allora, il mondo abbia veduto,
la più piena di morti e di dolore,
la più orrenda in cui il mondo è caduto.
Ogni nazione crede alla vittoria:
“Viva la guerra!” si va proclamando.
Ogni nazione è convinta di gloria,
e partono gli eserciti, cantando.
Le madri e le mogli e le sorelle,
salutano i soldati alla partenza,
e quelli le salutano: “Ciao, belle!”
auguri, fiori, baci, non violenza.
I giovani arruolati se ne vanno,
restano a casa le donne e gli anziani
per fare tutti i lavori dell’anno,
pensando ai loro giovani lontani.
E dopo i canti e i baci, c’è la guerra,
fatta di corpi umani e di animali,
e spari, scoppi, sangue, fango, terra,
di qua o di là dal fronte, tutti uguali.
Dicevano, dall’una all’altra parte:
“Noi vinceremo in qualche settimana!”
Ma la guerra non è un gioco di carte, l
a fine si fa sempre più lontana.
Da meno di vent’anni, dagli uccelli,
hanno imparato gli uomini a volare,
e già, qui, come falchi sugli agnelli,
calano occhiuti, pronti ad artigliare.
Da aerei molto fragili, nel cielo,
cadono i semi della distruzione,
da casematte di cemento e gelo
sputa semi di morte il cannone.

Si scavano dei solchi nella terra,
così profondi, mai se n’è veduti:
dentro, viventi semi della guerra,
stanno i soldati, spaventati e muti.
Passano i mesi, il vento, le stagioni,
nelle trincee scende pioggia e neve:
dentro, bagnate, gelide legioni
di veterani, e sempre nuove leve.
In patria, nelle fabbriche, le donne,
che facevano, prima, i mestieri
di casa e orto, sporcano le gonne
con l’olio d’officina, tra i neri
sbuffi e il frastuono dei macchinari
al posto di operai, ora soldati:
ma, anche se son donne, gli orari
di produzione restano immutati.

L’industria della guerra fa faville,
si fabbricano armi a tonnellate,
gli industriali guadagnano a mille,
mentre le donne sono consumate.
Al fronte, sopra i campi di battaglia,
attacchi, contrattacchi, avanti, indietro,
dalle trincee, su, verso la mitraglia,
per conquistare solo qualche metro.
Se non si è feriti, o non si muore,
si va per qualche giorno in retrovia,
a riposarsi un poco dal terrore,
scrivere lettere di nostalgia.
Le leggono le donne, silenziose,
e, se i bambini vogliono sapere,
dicono loro solo poche cose,
le più gloriose, quelle più leggere.
La vita di trincea non è una vita,
è chiusa in una tomba a cielo aperto,
è un tempo cupo d’attesa impaurita,
un tempo di sussulto e di sconcerto.
C’è poco sonno, molto freddo e fame,
e topi e vermi e zecche sulla pelle,
puzzo di morti, di umano letame,
l’inutile splendore delle stelle.
E non c’è mai silenzio, sempre tuona
qualche cannone, un continuo fragore,
se senti il colpo è una cosa buona:
la palla viene prima del rumore.
E, nel silenzio, qualche volta arriva
il suono delle voci dei nemici,
voci come la tua, umana e viva,
vicine come quelle dei tuoi amici.


E altre voci, a volte, offesa e sfida,
anche al cielo, astiose e rabbiose,
battute sconce, lazzi, fischi, grida,
ordini di ufficiali, voci odiose.
La vita di trincea è vita morta,
cammina con le scarpe appesantite
dal fango e dal gelo, e si porta
sopra le spalle, altre morte vite.
Anche se non è proprio Carnevale,
ognuno ha una maschera attaccata,
perché c’è in giro un’aria che fa male,
un’aria che non va mai respirata.
Arriva in un confetto di cannone
che cade, esplode, e dopo un abbaglio,
si espande in uno stabile nebbione,
che ha un profumo di senape e aglio.
E’ nebbia che, se solo l’ho toccata
anche attraverso stoffa, gomma, cuoio,
mi dà vesciche, e se l’ho respirata
un poco troppo, poco dopo muoio.
Non sempre poi la maschera funziona,
la scienza, in questo campo, poco sa,
e poi l’industria, all’occasione buona,
non bada troppo alla qualità.
C’è anche chi s’oppone a quest’orrore,
ma, se lo fa al fronte, è condannato
per tradimento, o come disertore,
e viene fucilato, o impiccato.
Si muore in molti modi in questa guerra,
e se non riesce a ucciderti il nemico,
se non ce l’hai di fronte, chi t’atterra,
ti prende nella schiena il “fuoco amico”.
In terra, sotto terra, in aria, in mare,
quando, alla fine, vince il più forte,
questa orribile guerra può contare,
dieci milioni di persone morte.
Ma anche ai vivi, lascia quantità
di corpi ammalati o mutilati,
a volte ne rimane una metà,
mezze persone, resti di soldati.
Reduci con la guerra nella mente,
col rombo del cannone nel pensiero,
senza lavoro, a morir lentamente,
dentro un presente disperato e nero.
E altri dolori e danni, immisurati,
le vedovanze e le orfanità,
città e paesi e case rovinati:
un’altra guerra è la povertà.
E le Potenze? Ahi, di nuovo pronte
a nuove discussioni, accuse, offese,
contendersi un fiume, mezzo monte,
a chiedere i rimborsi per le spese.
Non pensano alla pace come un bene,
ma come al tempo per i buoni affari.
Non pensano a levare le catene,
pensano a spartirsi terre e mari.
Se andranno avanti in questo modo,
temo fra dieci anni, o quindici, o venti,
al massimo ventuno, rivedremo
ancora sfide, e armi, e reggimenti,
ascolteremo ancora, sulla terra,
il suono, il tuono orribile e profondo,
un altro tempo di violenza e guerra,
un’altra guerra assassina del mondo.

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